IL DENUNCIANTE
Tra i diversi Codici, testi unici, leggi e assimilati, non saprei precisare quante sono le molte volte che il legislatore abbia sino a oggi usato il termine “denuncia”. Termine che, secondo tutti i migliori dizionari italiani, sta ad indicare, nel settore penale, l’atto con il quale chiunque può portare a conoscenza dell’autorità – pubblico ministero o ufficiale di polizia giudiziaria – un reato perseguibile d’ufficio del quale ha notizia, consumato o in via di consumazione, ai danni dello stesso denunciante o di altri. Normalmente la denuncia è facoltativa ed è obbligatoria nei casi espressamente previsti dalla legge. Il legislatore mette a disposizione del cittadino questo strumento onde evitare che quest’ultimo possa o debba prendere privatamente iniziative per ottenere riparazioni o cessazioni di arbitri, per dissuaderlo dal reagire individualmente con intuibili conseguenze sul piano privato e su quello dell’ ordine pubblico. Lo Stato conosce fin troppo bene gli esiti di rappresaglie, ritorsioni, rivalse, rivincite, autodifese, faide, vendette dirette e per conto terzi; e i contesti dove, invece, vale il principio omertoso di emarginare i tutori della legge, sì che il denunciante – secondo l’etica mafiosa, ma, in genere, cultitaliana, – viene persino additato allo biasimo pubblico e indicato sprezzantemente come delatore, spione, invece di essere apprezzato per il suo senso civico. Cose nostre. La vittima subisce e continua subire, si adegua e china il capo, a tutto favore e alimento dei prepotenti, degli incivili, dei bulli, così il testimone, campione di reticenza. Ecco le conseguenze tragiche del silenzio: un non denunciante, da vittima, diventa utile idiota e persino complice del violatore di legge. I termini gratuiti, come delatore, spione, se li ficchino nel culo i popoli bue, diano lezioni di morale ai loro figli che erediteranno alte dosi di civismo. Imparino a denunciare. Magari, a cominciare dai propri redditi.