M’ ILLUMINO D’IMMENSO…
La storia meno conosciuta. Il testo completo ed originale (meno noto) della poesia “Mattina” (da NAUFRAGI) è stata concepito durante la permanenza del poeta tra le anguste costrizioni della trincea, tra le nevi e le fredde brume del gennaio del ’17, e qualche bomba qua e là.
Quanto alla brevità della sua estensione grafica, forse non può del tutto escludersi che la scelta stilistica (come per altre sue composizioni scritte nello stesso contesto) abbia risentito anche della limitatezza della carta disponibile (una cartolina postale), della ristrettezza e della precarietà del tempo per dedicarsi ad attività diverse da quelle belliche tali da non consentire di preventivare un più ampio progetto letterario. E, perché no, anche dal desiderio di non farsi oscurare frasi e parole dalla censura militare attentissima a verificare, prima dell’inoltro, che dal fronte non partissero notizie idonee a fornire al nemico (e alle sue spie) elementi informativi di qualsiasi genere sulla situazione: anche sullo stesso umore dei soldati. Comunque, era già stile; mentale, soprattutto. Eppure sulla cartolina postale del 26 gennaio 1917 erano scritti all’amico Giovanni Papini dal soldato Ungaretti Giuseppe in turno di riposo a Santa Maria la Longa, vicino a Palmanova, questi versi col titolo “Cielo e mare”: M’illumino/ d’immenso/ con un breve/ moto/ di sguardo.
I primi due versi diventeranno, poi, la celeberrima poesia «Mattina». Una scelta di sintesi estrema.
Per questo, forse, ogni poesia di Ungaretti, di quei giorni specialmente vissuti in chiave di precarietà, costituisce non un capitolo ma un’opera autonoma, completa nella sua brevissima individualità, perché potrebbe essere l’ultima.
Per il resto, nell’economia interpretativa, ci soccorre anche il titolo: “Mattina”, quella che può risorgere limpida e trasparente, col sole, dopo una ennesima notte con i piedi costretti nel fango, e lo sguardo compresso dalla nebbia, relegato nelle pareti scure dei cunicoli della trincea, finalmente riesce ad allungare il campo focale, a correre lontanissimo. Solo lo sguardo può farlo, se sa farlo. Ecco: il soggetto del verso non è il sole che illumina; è l’uomo, con la forza della sua voglia, che sa trarne tutta la luce possibile e buttarsela addosso, se sa farlo. E allora, quanto infinito riesce a raccogliere finalmente l’uomo che sa protrarsi fuori da sé! Forse, all’uomo Ungaretti riesce anche di scorgere lontane distese di mare (si era tra i monti, dalle parti di Trieste). La luce dell’immenso alla quale il poeta si espone è liberazione, è resurrezione di compagni morti, piena consapevolezza della vita e della grandezza dei diversi momenti di cui essa è composta. Perché, quella dimensione, sì a lungo ed invano a terra cercata, pensata, desiderata, magari altrove e con altri mezzi, la ritrova, poi, all’ improvviso semplicemente “con un breve moto di sguardi”, in un batter d’occhio, verso l’alto, là dove l’orizzonte lontano congiunge l’alto a terra. In un niente.
L’immenso ungarettiano é forse più carnale dell’infinito leopardiano, ma entrambi rappresentano l’ anelito tragico dell’uomo che avverte di essere portatore di un afflato superiore – e che non sa definire con parole umane – verso cui istintivamente tende e, tuttavia, non sa che sia esattamente, né sa dove sia. E’ per questo che, forse, più che un gene di Adamo, c’è il segno di un Ulisse in ognuno di noi, e drammaticamente ci inquieta. Anche se sospinge in mille e mille diverse direzioni, fuori dalla costrizione della pochezza umana, dalle strettoie della trincea. E ciascuno ci va da solo. Lo deve al proprio destino di uomo precario che “…sta come d’autunno sugli alberi le foglie”.
Un’autentica lezione di filologia umanistica. La storia e l’essenza ultima di un verso famosissimo, tradotto in molte lingue, citato ad oltranza ‘ad orecchio’ ed anche a sproposito, e se ne capisce ciò che si vuole, o addirittura niente. Ne salverò e conserverò una copia e la userò per i miei ragazzi del liceo. Grazie Prof.Lamacchia.
Filologia