SENTENZE
L’altissima percentuale delle sentenze impugnate, riformate e cassate, anche clamorosamente ribaltate – ove la circostanza non dovesse significare altro – quanto meno mette necessariamente in discussione l’idea che le stesse vadano sempre e comunque rispettate, nel malinteso senso che le stesse siano, sempre e comunque, da ossequiarsi passivamente, riverirsi acriticamente, e che gli autori possano fregiarsi del marchio della infallibilità ed esigere un’accettazione passiva, intimidita, inerte. Ci sono stati, e forse ce ne sono ancora, atteggiamenti e iniziative provenienti da ambienti ben definiti, non solo giudiziari ma anche contrassegnati da faziosità, ideologismo surrettizio e da opportunismo politico, a sostegno della tesi fondamentalista di un assoggettamento fantozziano del destinatario del provvedimento processuale. Ma, per fortuna o per ragionevolezza, la tesi del ‘Ditegli sempre di sì’ stenta ancora a passare come qualcuno vorrebbe; per ora, sopravvive solo nei becerumi delle arroganze e delle prepotenze che continuano a strisciare clandestinamente nelle grettezze e nelle inadeguatezze culturali e mentali incautamente distribuite tra poteri e funzioni, ahimè, dalle carenze del sistema democratico, enfatizzato dalla retorica delle chiacchiere e sminuito nei fatti.
Una sentenza definitiva è assistita dalla sua esecutività; è questa che le attribuisce il rispetto. Forse qualche esaltato lo crede o intende farlo credere; ma la sentenza non è un dogma, non è un Comandamento, non una verità rivelata, non un Confiteor, non è Vangelo, non è Bibbia, un Corano, un Talmud; e la sua motivazione, sappiamo bene, può essere insufficiente, contraddittoria; e – ahimè – si teme che accada, anche, che non sia quest’ultima la determinante della decisione, ma sia costruita ed elaborata, invece, a sostegno e beneficio di una decisione; insomma: condanniamo, assolviamo, e poi vediamo di trovare un congruo perché, come giustificare per la quadra. E accade anche, a volte, che tra le motivazioni si annidino aporemi che, innanzi a giudici diversi, trovano conclusioni diverse, persino opposte.
La sentenza consta di un ‘sentire’ (stesso etimo di sentimento, di sentore), è un parere qualificato come strumento di definizione convenzionale di una vicenda giudiziaria, in nome dell’ordine e delle certezze delle situazioni; in questo senso, come per l’ ordinamento giuridico, essa va rispettata, nel senso di osservata, ottemperata, ci si deve attenere; non necessariamente e fideisticamente apprezzata, condivisa, benaccetta per una sua presunta illuminata superumanità. Anche una sentenza definitiva, infatti, può essere oggetto di giudizio di revisione.
Si può criticare un’ Enciclica; persino una legge dello Stato, accusarla addirittura di essere ad personam o contra personam, una nomina, una elezione, una scelta politica, un trattato internazionale. Criticare una sentenza, criticarne metodi utilizzati ed esprimere il proprio dissenso sulle motivazioni, sui risultati, esprimere un’opinione discorde – che, come tale, non deve essere rigorosamente obbiettiva – è lecito, è sacrosanta libertà costituzionale. E, per adesso e per quanto ci risulta, i magistrati e i loro atti non godono di una specifica immunità ostativa all’esercizio di tale preziosa libertà etico-giuridica garantita a tutti, a partire da chi, a torto o ragione, se ne senta ingiustamente colpito. E se ciò vale per le sentenze, vale, a maggior ragione, per tutti gli altri provvedimenti ‘minori’.
Le mettono in discussione gli stessi Giudici del Supremo Collegio quando si discostano da sentenze della stessa Corte anche coeve , ma di altra Sezione tanto da dover intervenire la stessa Corte a Sezioni Unite