Note a margine n. 563

DIMMI COME PARLI: PACCHIE E PACCHIANATE

Alla Camera, pochi giorni or sono, un deputato, quando in suo intervento ha profferito la locuzione “ è finita la pacchia...”, è stato subito redarguito dal Presidente che lo ha richiamato ad un linguaggio più consono al contesto. La cosa è parsa un po’ eccessiva anche per la considerazione che, per quanto colorita, la frase non comportava insulto né sgarbo ad personam.
E’ poi accaduto in una seduta successiva che una deputata – pur distintasi, a suo tempo, per il rigore di certe sue curiose formalità – rivolgendosi direttamente alla persona del Presidente del Consiglio, lo abbia chiamato professore e non sig. Presidente come, invece, era strettamente corretto che fosse in quella situazione. Ed è accaduto anche che il Presidente della Camera abbia lasciato correre, non abbia ritenuto di rimetterla in carreggiata dopo l’ intenzionale sbarrellamento lessicale e protocollare di quella che, peraltro, là si ritrova solo per una semplice e salvifica operazione di aritmetica di avanzi di voti elettorali, pateticamente chiamata ‘ripescaggio’. E non certo per l’ inconsistente numero di preferenze che l’ abbiano apprezzata per le note qualità di cui si ha ancora vivido e ben definito ricordo.
La performance, di pessima lega personale e istituzionale, si è aggiunta al becerume del diffuso crescente superamento di certi minimi limiti in violazione di regole di deferenza che, invece, sono state sempre osservate nei contesti istituzionali, anche in occasione di altre, storiche batoste elettorali maneggiate, tuttavia, col dovuto riguardo che i ruoli imponevano e impongono. Una pacchianata; altro che pacchia.
In parole povere: in certe sedi è pur ammesso essere rancorosi e incazzati neri per lo smacco, ma non cadere nella ridicola cafonaggine, inammissibile nell’esercizio delle cariche e funzioni che si connettono alla sovranità del Popolo e al sistema democratico dall’incontestabile rispetto. Noblesse oblige. Ovviamente, se la si conosce.
Mi chiedo chissà che termine avrebbe usato la soggetta, così declinata al femminile ‘che ci tengo tanto’ – sulla quale si è da tempo convogliato il meglio della disistima degli italiani che ci esonera dal chiosare – così tanto incattivita da perdere il controllo lessicale e, ancora di più, il buongusto, piuttosto che riconoscere, almeno nei termini, la legittimità della carica e della funzione del soggetto a cui si rivolgeva, se il Presidente fosse stato ingegnere, architetto o ragioniere.
Tanto meglio studiare, studiare, studiare. Dimmi come parli e ti dirò.

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