Note a margine n. 542

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BRIGANTI E BANDITEN

Nel 1951 fu proiettato nelle sale cinematografiche il primo film su drammatici episodi della Resistenza italiana, di Carlo Lizzani “Achtung Banditen!”. Prodotto con fondi raccolti mediante una sottoscrizione di ‘quote’ da 500 lire ciascuna da parte di una cooperativa di operai, il film fu girato nei dintorni di Genova, fra le frazioni di Campomorone, Pontedecimo e altre località della Val Polcevera.
Nella mentalità e per la propaganda germanica, ‘Banditen’ era il nome dispregiativo con cui i nazisti si riferivano ai partigiani e ne marcavano i cadaveri di quelli che ammazzavano in battaglia o fucilavano al muro come banditi, criminali, delinquenti comuni. Spesso non prima di averli torturati per estorcere notizie utili alla cattura degli altri alla macchia.
Li chiamavano ‘banditi’ perché quelli non avevano divisa identificativa, non avevano codici militari e, comunque, per giustificare la non applicazione dei comuni trattati bellici e per dequalificarli agli occhi della popolazione civile che li aiutava e di quella che – va riconosciuto perché ampiamente documentato – ne subì violenza.
Viene alla mente un curioso parallelismo col metodo usato dai piemontesi che, negli anni del Risorgimento, qui sbarcati – per interposta persona, col segreto aiuto inglese e in prudente forma anonima – ad invadere e a occupare il Regno delle due Sicilie per annettere all’indebitatissimo Stato Sabaudo il meridione d’ Italia, confiscarne le grandi riserve auree e le preziose industrie dell’acciaio e metalmeccaniche (tra le prime in Europa), della lana e tessili, incrudelirono con ferocia verso militari e civili che opponevano resistenza, marcandoli col termine di ‘briganti’. Una forma dispregiativa di arrogante e presunta superiorità razziale analoga a quella del ‘banditen’ nazista per disconoscere diritti e garanzie agli italiani del sud rimasti fedeli al loro legittimo Stato o che tentavano legittime reazioni di difesa e protesta individuale o sociale ai feroci soprusi. Il termine ‘piemontesismo’ fu coniato dagli storici non certamente per riferirlo in senso di lusinghiera gratitudine ai presunti liberatori/predoni capeggiati da un ex ladro di cavalli, ex mercante di schiavi del cui comportamento diffidava, con sue buone ragioni, persino il suo regale committente prudentemente defilato per via del regale vizio di non rischiare prima e approfittare poi.
Accade, tuttavia, che chi oggi scopra le carte del gioco fasullo del copione pseudostorico e della retorica risorgimentale, non foss’altro per rendere giustizia alla verità storica, viene ipocritamente e stupidamente bollato come ‘neoborbonico’ dalle solite frange oscurantiste che contestano caparbiamente il fondamentale diritto delle nuove generazioni – questo sì davvero democratico – di conoscere la verità e interpretare correttamente la nostra identità storica di italiani meridionali e settentrionali. La violenta e intimidatoria aggressività, davvero supponente, con cui in questi giorni a Bari, da parte di un paio di irriducibili e paternalistici censori si è data forma e sostanza ad una ennesima repressione avverso una lodevole iniziativa di tipo conoscitivo consumata, con surrettizia intimidazione e retorica scandalistica e babbea, ai danni di alcuni operatori culturali, conferma che purtroppo il pericolo autoritaristico non ha colore e sopravvive in barba alla vera fede democratica di cui tanto va cianciando proprio chi non la professa. E se vogliamo rispondere a tono, parliamo pure di una sorta di ‘neopiemontesismo’ supportato da certa stampa locale ancora spiaggiata sulla battigia del provincialismo che condanna il meridione alla emarginazione e al vittimismo. Cui prodest?

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