Note a margine n. 475

mi-facci

LA NOSTRA SOLA LINGUA

  • C’ è un grosso errore di fondo nelle intenzioni di chi, negli ampi tempi liberi del suo dopolavoro, vuol vestire l’ armatura di una novella Jean d’Arc e ritiene di poter modificare per decreto la lingua italiana sferrandole un attacco tanto ostinato quanto velleitario e inconcludente. La meta: la declinazione al femminile assoluta di ogni sostantivo riferibile a soggetto di questo sesso.
    Il movente: una specie di revanchismo che intravede nella più diffusa declinazione al maschile dei termini una sorta di ingiusta sperequazione in danno della personalità femminile, così discriminata nel subordine sociale. Una interpretazione politico-lessicale non particolarmente diffusa e della quale non si riscontrano segnali di apprezzabile consistenza nemmeno presso esemplari femminili di tutto riguardo, per successo e valenza nei diversi settori della società, dalle arti alle scienze, dalla tecnica alla politica, allo sport. Non credo di sbagliare molto nel ritenere che tale constatazione rispecchi da vicino, prendendone pieno atto, il fatto che la donna, sia pur con modalità e percorsi diversi connessi ai differenti contesti, abbia saputo realizzarsi anche ai massimi livelli, senza annoverare come ostacolo, tra i diversi veri impedimenti e barriere, quello della mancata declinazione al femminile di cui oggi taluno, isolatamente ma chiassosamente, dibatte per conquistare la sessuazione sostantiva per legge. Magari per legare poi il successo al proprio nome per la Storia.
    Quale, dunque, l’ errore? Quello di considerare la grammatica italiana una serie di regole volute, decise, enunciate, onde adeguarvi, poi, espressioni di scrittura e di oralità per trarne correttezza, per questa via. Sì che, attraverso la imposta decretazione di regole nuove – nel nostro caso, la declinazione al femminile – si possa intervenire sul linguaggio forgiandone uno fatto ad hoc, per superare presunte ‘ingiustizie’ sociali che vedrebbero come asocialmente egemonico il maschile.
    Semplicismo o malinteso? Forse entrambi, o addirittura nessuno dei due; forse solo inconsapevolezza interpretativa sul significato di grammatica italiana, sulla sua natura e sulla sua storia. Forse un banale fatto di pancia o soltanto un pretesto per inventarsi un fronte, una battaglia spacciata per sociale, e magari un successo mancato altrove.
    Qualche cenno di diversa natura potrebbe aiutare. Non è un semplice caso che le primissime sintesi delle grammatiche storiche dell’italiano furono scritte tutte da studiosi stranieri che mai avrebbero potuto creare e introdurre regole per la lingua di un popolo diverso dal proprio. “La grammatica non nasce prima delle lingue e prima che le lingue stesse non abbiano espresso una tradizione letteraria. I grammatici, anzi, non fanno altro che formalizzare e rendere ufficiale quanto in genere si è affermato per altra via” (Marazzini, 2002). In tali sensi, tra le più rilevanti, anche la grammatica del tedesco Gerardh Rohlfs, che si è occupato sia della lingua letteraria a base toscana, sia dei dialetti parlati in Italia.
    In parole povere: le regole grammaticali italiane non sono regole introdotte, ma sono la sintesi – fatta dai ricercatori grammatici – di forme espressive trovate nella letteratura, in particolare nella produzione letteraria dei tre massimi autori che attribuirono dignità letteraria al volgare: Dante, Petrarca e Boccaccio. E’ ovvio, che poi, successivamente alla elaborazione delle grammatiche storiche intervennero altre elaborazioni: le cosiddette grammatiche evolutive della lingua nel tempo, grammatiche descrittive-normative che trovano l’ apice nella Grande grammatica italiana di consultazione, diretta da Lorenzo Renzi, uno strumento per specialisti che tratta la grammatica dal punto di vista della moderna linguistica. Da non dimenticare, tuttavia, il primo libro di grammatica italiana scritto nel 1435 da Leon Battista Alberti.
    In ogni caso, si tratta di radicate convenzioni lessicali tradizionali e diffuse, desunte dai testi, vecchi, nuovi e quelli scoperti via via dalla ricerca filologica; ma mai di regole decise per singole o individuali volontà deliberanti di matrice sociopolitico o di grammatici, addirittura per motivi di giustizia come si sostiene da chi ha preso l’ inusitata iniziativa. La grammatica italiana è nata come “modello della competenza linguistica di un parlante nativo” e non può essere frutto di spunti effimeri, assoggettata a velleitarie e individuali intraprendenze di una cosiddetta ‘giustizia’ sessista ottenuta per inseminazione artificiale o stupro del lessico. La stessa Alma Sabatini, autrice del noto studio Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua – la parte più conosciuta del suo Il sessismo nella lingua italiana, una specie di guida rivolta alle scuole, alle case editrici e ai giornali per stimolare l’ uso di una lingua che tenesse conto di entrambi i generi, pubblicato nel 1987 a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri (Craxi e Fanfani) – ebbe a precisare, avvertendo: “La lingua è una struttura dinamica che cambia in continuazione. Ciononostante la maggior parte della gente è conservatrice e mostra diffidenza — se non paura — nei confronti dei cambiamenti linguistici, che la offendono perché disturbano le sue abitudini o sembrano una violenza ‘contro natura’. Toccare la lingua è come toccare la persona stessa.” E chiarì esplicitamente che le sue non potevano assolutamente essere considerate regole anaelastiche, riconoscendo che la lingua è un sistema in continua evoluzione e raramente può essere imposta dall’alto. Paventava, sin da allora, dunque, il concreto rischio di qualche spericolata iniziativa che travisasse il vero senso del suo lavoro e sortisse scarsa risonanza e diffusi effetti contrari: diffidenza, ostilità, resistenza e dileggio. Ci azzeccò.
    OK ai neologismi, ok anche ai linguaggi particolari convenuti e deliberati per l’uso ufficiale strettamente delimitato ad alcuni specifici contesti (v.si ad es. La neutralità di genere nel linguaggio usato al Parlamento europeo); ma giù le mani dal tradizionale patrimonio letterario italiano. Se parlando della ricotta la si vuol definire ‘formaggia‘ o ‘ latticina‘, si sguazzi pure nel ridicolo, ma non si pretenda di essere presi sul serio o di essere capiti. Siamo già troppo occupati a resistere all’ invasione e saccheggio lessicale da parte di orde di sms.
    Magari, là dove mestano e rimestano la questione come se fosse una concreta necessità epocale, una santa crociata per un giusto recupero sociale, una panacea per i disagi che affliggono una buona metà dell’ umanità – una questione che, per loro buona pace, diffusamente si ritiene artificiosa – facciano un articolato decreto con tanto di sanzioni, disposizioni transitorie e circolari applicative, con epurazione (o rigorosa messa all’ indice) dei testi letterari della nostra storia, e poi mettano la fiducia. Se no, faremo ancora a modo nostro, in italiano, a misura d’uomo. Che quella è la nostra sola lingua.
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6 risposte a Note a margine n. 475

  1. Aldo ha detto:

    Caro Prof. ho appena letto che la solita tipa ha fatto pubblicare . con i soldi degli italiani – un bel numero di copie di un libercolo che ha distribuito ai parlamentari per indottrinarli a declinare al femminile i nomi. Il nuovo libro rosso di Mao? una cosa di una gravità inaudita!

  2. Zanoids 1980 ha detto:

    Tanti cari auguri Prof., faccia un buon Natale. Ciò che scrive è sacrosanta verità.

  3. Gray ha detto:

    Non passerà di fasti della Storia; ma alla ribalta della cronaca umoristica già c’ è ampiamente. Roba stantia che non fa nemmeno tanto ridere più. Auguri Prof.!

  4. Margot ha detto:

    Ho appena letto che una giovane, promossa Maresciallo dei CC. ha detto chiamatemi Maresciallo, tanto la divisa è uguale. Persona seria e intelligente, alla faccia delle oche.

  5. Frida ha detto:

    Quante belle teste fresche…! Buon Natale Prof.!

  6. Martina ha detto:

    A me, come donna, non mi tocca minimamente e penso che chi solleva questa questione abbia ben poco da fare e non si occupi abbastanza di altro. E’ solo un passatempo personale creato ad hoc o un rigurgito di qualche cosa che abbia lasciato un segno. Lascino in pace la nostra lingua che non ne ha colpa; dopo averci provato con la nostra Costituzione, ora si inventano questo. Mi pare che circolino persone dalle idee un po’ …particolari. Ciao prof. Buon Natale!

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