TRADUZIONE E CONFESSIONE
Motivi di studio e ricerca, ma sovente la semplice curiosità di partecipare ad un evento letterario nuovo per data o per diffusione locale, presiedono prioritariamente ad interessarci alla presentazione o alla lettura di un libro di autore straniero, magari uno che in Italia non abbia avuto grande diffusione mediatica, così assorbendo, in genere, altri riflessi che spesso ci sfuggono.
In genere, infatti, da lettori, non ci soffermiamo a riflettere sulla lingua di origine dell’ opera, il pensiero nemmeno ci sfiora e così ci lasciamo sfuggire un aspetto rilevante del lavoro poi tradotto in diverse lingue.
Il testo così tradotto in italiano – specie nel caso in cui non sia di lingua neolatina o, peggio, di lingua non indoeuropea (tipo: arabo, cinese, giapponese, hindi, etc.) – è spesso il risultato di un percorso lungo, traverso, derivato, tortuoso, di rimaneggiamenti di traduzioni precedenti, un risultato che, alla fine, molto molto può discostarsi dalla creazione originale dell’ autore, a volte, sino a snaturarla. Accade, infatti, che armonie lessicali, rime, giochi di tonalità, metrica, strutture, e, si immagini, modi di dire locali, inflessioni etniche, funzionali all’opera originale, anche se appartenenti a lingue neolatine, si disperdano; e il prodotto spesso ci giunge impoverito da potenti filtri e da perdite di condutture. Per tacere, poi, dei casi di grottesche traduzioni indirette, quelle, cioè, non risalenti direttamente al testo originale ma mediate attraverso precedenti traduzioni altrui.
E non è soltanto lo stile-forma a risentirne; le ricadute reagiscono negativamente anche sul contenuto-pensiero, stante la seria difficoltà di identificare e di separare nettamente contenuto e forma di uno scritto d’arte per via della loro stretta interattività. Senza contare il disagio di una lingua come l’ italiano ricca di sfumature lessicali e di sinonimi d’ uso ma che sinonimi non sono. Ma questa osservazione porta a digressioni che meritano ampi spazi a parte.
Qualcuno ha scritto “un romanzo non è una lista della spesa né una serie di avvenimenti elencati in fredda successione. Lo stile, le piccole sfumature, le licenze poetiche sono ciò che realmente distingue un’opera da ogni altra”(Andrea Mucciolo). Belli li fiij a pposticcio, Eduardo a da passà a nuttata, Di Giacomo subbeto mme ‘mmuccaje, Boccaccio conciosiacosaché e lo stesso Dante ‘ntelletto possibile’ certamente hanno lasciato il meglio nella penna del traduttore in altra lingua. Tuttavia, bisogna prenderne atto e accettare un compromesso come un prezzo da pagare per conoscere grandi opere o il pregio di particolari componimenti, altrimenti destinati a restare sconosciuti a noi lontani nello spazio o nel tempo. Penso, ad esempio, a quanto ci perdiamo nel leggere un haiku tradotto in italiano, non solo in gusto letterario ma anche in emozione.
Per questi motivi bisogna riconoscere che anche tradurre un libro è arte. Purtroppo i nostri editori la sottovalutano economicamente, forse perché la maggior parte dei traduttori fanno un lavoro che è o che viene considerato puramente artigianale, meccanico, non creativo. In molti casi, a buona ragione. Ma, invece, ai fini di una valida traduzione, la semplice conoscenza linguistica ( della lingua straniera e di quella italiana) deve essere solo un mezzo per creare un concerto col patrimonio culturale del traduttore, con la sua sensibilità ricettiva e comunicativa, e quelle del destinatario.
La traduzione di un’opera letteraria non è il deleterio meccanicismo di traslate parola per parola, frase per frase, decontestualizzate, come si trova nei traduttori in internet. Forse, non è esagerato affermare che un buon traduttore deve essere anche un buon conoscitore della civiltà dell’ autore tradotto.
A proposito delle tecniche traduttive, sono state rilevate, infatti, e definite ben quatto teorie linguistiche principali: lo strutturalismo (anni ‘50-’60), le teorie testuali (anni ’70), i Translation Studies (fine anni ‘70), l’approccio integrato tra indirizzi diversi.
Non basta che il traduttore esprima passivamente e pedissequamente uno stesso contenuto e significato in altra lingua: egli, invece, deve prima identificare la funzione di partenza e poi individuare una riscrittura del testo per adeguarlo al contesto culturale di destinazione. Qualcuno, in proposito, parla di “lavoro di decodificazione del messaggio nella lingua di partenza e di ricodificazione nella lingua di arrivo”, ma aggiungerei anche il livello di maturità culturale di arrivo. Ovvio che, pertanto, molti sono gli elementi ostativi afferenti al genere letterario del testo che devono essere superati dal traduttore il quale non può limitarsi ad una (improbabile) azione imparziale ma deve saper attuare condivisione artistica con l’autore, come costui fu a sua volta condizionato dal suo contesto artistico-esistenziale. Questo è il disagio oggettivo che il lettore finale deve tenere sempre ben presente, accettando la traduzione con l’ animus della transazione.
A me pare, tanto per citare una mia recente esperienza diretta, che Gilda Morra, impegnatasi nella traduzione del portoghese Mario de Sa Carneiro (La confessione di Lucio, ora è un secolo), sulla spinta di una certa vis poetica, abbia saputo muoversi con accortezza, sempre restando nei parametri sopra richiamati, in preferenza quelli della testualità, mediante un lavoro paziente, come lei stessa ha precisato nella sua nota introduttiva che chiarisce la chiave operativa e di lettura adoperata. In questo senso, perciò, con esiti indicativi rispetto ad un racconto scritto nei primi del novecento e ambientato in una realtà molto diversa dalla nostra di allora. Senza contare il fatto che questa nuova traduzione offre al lettore desideroso di approfondire criticamente, l’ulteriore agio della comparazione con una precedente prima trasposizione in italiano dello stesso racconto, una novità scritta da Luciano Allamprese, pubblicata da Sellerio Editore, 1987, davvero molto pregevole per interpretazione e significazione.