Note a margine n. 419

lettera aperta

RECAPITATA LA “LETTERA AGLI ITALIANI”

C’ è una sgradevole sensazione – strettamente mia – che francamente mi infastidisce già dopo aver letto appena il primo capitolo di Lettera agli Italiani di Marcello Veneziani; immagino il seguito. Dopo aver letto queste pagine che non oso definire incasellando l’opera, come si usa fare, in una specifica categoria letteraria, dopo averne agevolmente colto la forte umanità del contrasto degli intensi sentimenti che spaziano dall’affetto sino alle passioni, l’ampiezza delle compilation di motivazioni, giustificazioni, il groviglio delle delusioni, delle speranze e di quant’altro possa rendere ancora più arduo un amore al limite dello sgomento; e dopo averne apprezzato l’analisi – veramente esaustiva perché non mi viene in mente nemmeno una virgola da aggiungere o da togliere – dovrei, infine soffermarmi sulla fluidità espositiva, dialogica, quasi amicale, come si farebbe passeggiando assieme o conversando (parlando/ascoltando) seduti al tavolino di una caffetteria ‘schiassata’ dagli scoppi di voci, dagli echi di traffico stradale, dai toni di dominati ‘soprafondi’ musicali ambientali. E vai leggero, rilassato perché senti che l’ interlocutore, come te, non soffre della sindrome di appartenenza, un crisma prodigioso che, però, tante soddisfazioni dà all’ umanità tesa diritta al successo. Sempre che questa appartenenza sia quella giusta.
E cogliendo qua e là lo stimolo al sorriso dei gustosi e stuzzicanti neologismi e calembour che con discrezione addolciscono e insaporiscono osservazioni e considerazioni che ci rispecchiano, e che, riflettendoci un attimo di più, quasi ritroviamo francamente dentro di noi. Dette così, ma con incisiva bonomia, quasi sempre senza suscitarci altri sensi di colpa; ché ci bastano quelli che già ci appesantiscono le sacche della coscienza, anche inconsciamente, se possibile.
Anche per questo la lettura della Lettera agli Italiani è un godimento; e per questo, assieme al godimento, a noi viene anche da dispiacerci di non averci pensato noi stessi prima, avendo il tutto ogni giorno sotto gli occhi, in genere distratti e messi a fuoco solo su piccoli obbiettivi e su particolari di primi piani che escludono i campi lunghi, panorami e vedute d’insieme. E – posso assicurare – non si tratta di banalità, ma di aspetti di vita che quasi per via della loro ovvietà sfuggono all’ attenzione, come avviene per tutto ciò che vediamo ma non guardiamo.
Infine, una parola di condivisione: sulla sofferenza che serpeggia in ogni frase di questo appassionato messaggio agli Italiani come una lettera dal fronte di prima linea, sulla tenerezza che suscita questo figlio che si sente non amato come da una madre amatissima ma ostile, che non lo abbia voluto o gli preferisca un altro figlio o persino un amante. E a noi vecchi dal modello obsoleto il pensiero passa per suo conto persino da Dario Niccodemi e la sua tormentata Nemica.
E torniamo al disagio, al mio disagio di scrittore naif che, affine per interessi ed argomenti, dopo la metabolizzazione di questa lettura, dovrà penare non poco per non cadere nell’ errore non certo veniale di scrivere ripetendo. E sarebbe colpa dell’ usato; a garanzia scaduta.

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