TREE-FASI e DOLORE PER AMICO
Ieri, ho incontrato dei versi. Mi accade sempre più raramente che mi soffermi a leggerne quando mi muovo nel contesto del contemporaneo dove è sempre più frequente imbattersi in un intrico di scorciatoie sommarie vicarianti di un’ alternativa espressione che deponga a favore di una idea precisa. Spesso ci si deve fare largo attraverso una densa cortina di fumo che l’ autore frappone tra l’ intelligenza del lettore e l’ osticità del suo retropensiero, talmente retro da essere inaccessibile, magari per dissimulare una ruberia o un riciclo, contando sulla smemoratezza del lettore. Con l’ ambiguità, complice fissa. Ma incappando male, a volte.
Ieri, ho incontrato dei versi, questa volta di Anna Posa, che ho dovuto rileggere più volte: è il caso di TREE-FASI, dove la seconda E mi indispettisce per la sua impenetrabilità semantica e mi fa ipotizzare persino un refuso di stampa, così come quando leggo e rimugino sul penultimo verso che “il deserto Ha fretta” e quella maiuscola mi innervosisce. Non nascondo che l’ Astro, che si avvia, sosta diffondendo luce e caldo, che poi scivola via, mi fa pensare tout court al sole, al suo giro astrale, mentre l’ Autrice insiste sul mutare delle lunghezze d’onda cromatiche del suo giallo. E sul declinare del “bordo” che mi evoca l’ orizzonte nelle diverse filtrazioni di luce, che ci taglia fuori dal limitare del distante-circostante deserto, incerto, poi noto e poi oscurato (dalla notte?). Così il conto torna. Se, poi, l’ Autrice aveva in mente altro, vorrà perdonarmi: ho l’attenuante dell’ età che mi rende audace anche nella interpretazione dei suoi versi composti in DOLORE AMICO dove l’ ispirazione esce dal cono d’ ombra del ripiegamento su se stesso. E sente di poter affrontare vis à vis la sofferenza contestandogli apertis verbis scotimenti, cancellazioni, arresti. E, parlando in confidenziale seconda persona, si rivolge al dolore, identificato soltanto nel titolo ed assente nel testo – dissimulato, compresso e secretato a lungo – gli scopre le carte in tavola, ne mette a nudo le aspettative connesse alle raffiche del vento/tempo, che sa raccogliere ed insieme accogliere, accostato in attesa, sulle labbra di un cratere non più paziente della propria inerzia indotta, pronto ad incenerire tutto d’ intorno di bianco a partire dall’orlo. Ma la lunga frequentazione del dolore, a dispetto del titolo del componimento, mai lo promuove “amico”, nemmeno a parole. Lo vedrei, piuttosto, come un invadente compagno di lungo viaggio. Da liberarsene al più presto, malgrado la pericolosa assuefazione. N’ est ce pas?
Non ne so nulla. Magari Papa Francesco se la sarebbe cavata dicendo: “Ma chi sono io per giudicare !”, e lentamente avrebbe chiuso il libro, sicuro di essere perdonato.
Senza aver tenuto tra le mani titoli e versi dei due componimenti esposti nella magistrale analisi di Lamacchia, era come se li stessi leggendo e la curiosita’ di andarmeli a cercare se ne e’ andata invece per i fatti suoi. Se l’oscurita’ e’ eccessiva, il verso diventa inaccessibile all’altro, all’altro a cui dovrebbe andare incontro per un abbraccio di emozioni. Nella musica, nella pittura, nella politica e nell’architettura, tutto alla ricerca e all’incontro dell’altro; altrimenti e’ roba da niente.
Caro Prof., non conosco l’ Autrice di cui Lei ha delineato una accurata e gradevole analisi critica attraverso la lettura di un paio di componimenti in versi. Devo dire, tuttavia, che penso debba trattarsi di una produzione di un certo interesse letterario; almeno questa è l’ impressione che si riporta dagli elementi che Lei ha sottolineato in senso positivo. Vorrei saperne di più. Grazie.