VERBA VOLUNT…(PAROLE, PAROLE)
Da alcuni rilievi statistici, risulterebbe che l’italiano medio circolante, al massimo, conosca e utilizzi una quantità molto modesta di parole per la comunicazione nella sua lingua madre, circa 6.000; una persona colta circa 30.000 parole, rispetto alle 160.000 contenute nei vocabolari nostrani. Parrebbe meglio parlarsi di “lingua matrigna”. Una persona molto colta, invece, oltre alle 30.000 parole circa, conosce anche le parolacce di insulto che le giungono un po’ dappertutto da tutti gli altri per via di una invidia irridente e malcelata.
Discorso a parte per la categoria ‘cartonisti’, dei talebani lessicali che raccolgono qua e là materiali da riciclo e fanno scorta di termini di attrazione, roba da richiamo che in genere, poi utilizzano a sproposito, spinti dal miraggio di sfoggiare lustro espressivo e far colpo sull’uditorio o sul lettore. Robaccia farlocca da bancarella dell’usato.
Il fenomeno linguistico più sopra rilevato, tuttavia, non è da stimarsi del tutto negativo, considerato che la Bibbia è scritta con 8.000 parole e tutta l’opera di Shakespeare con meno di 25.000, ivi comprese quelle inventate da lui.
Non sarebbe male, però, il possesso di una più ampia e puntuale conoscenza lessicale (sia quantitativa sia qualitativa) di una lingua ricca e precisa come la nostra ed un utilizzo corrente, abituale, considerato, altresì, che, delle parole suddette, troppo spesso si ha anche una conoscenza rozza, spesso deformata anche dall’‘aspetto fonico’ delle stesse, approssimata per difetto o per eccesso, sicché il loro uso spesso è causa di grosse incomprensioni, equivoci, ambiguità, offese, risentimenti e reazioni immotivate, spropositate, pericolose e anche rovinose. Per questo motivo, ho sempre sostenuto che la parola non è mai innocente: aggredisce o fa sentire aggrediti; e non è mai nemmeno neutra: perché al contrario, può anche essere benefica o fa sentire beneficati. O è malefica, volontariamente o no, se brandita come lama di spada o clava.
Anche la stessa parola, in diversi contesti – comprese la capacità percettiva, le contingenze emotive e fisiche del soggetto destinatario e dell’utilizzatore – assume valenze di contatto molto graduate o differenti. Senza contare, nelle locuzioni orali, le variabili dell’impatto del tono vocale e della parola dominante del periodo con effetti fortemente diversificanti. Es. Tu puoi essere tante cose; tu puoi essere tante cose; tu puoi essere tante cose; tu puoi essere tante cose; tu puoi essere tante cose. (ripetuto appositamente in una poesia, e da leggersi ogni volta diversamente). Che dire delle sfumature, croce e delizia del nostro lessico, oltrepassate le quali, un termine deforma subito il significato, il senso, la forza stessa, e delle “stragi” compiute quando, dovendo verbalizzare, l’operatore “traduce” in italiano le parole espresse in dialetto o in vernacolo dal dichiarante o dal testimone?
Presumo che si tratti di un fenomeno non soltanto italiano anche se, in effetti, proprio l’ampiezza e le sottigliezze peculiari di questa lingua la espone al rischio del fraintendimento più di quanto non si creda. Con intuibili conseguenze.
Oggi, da parte dei meno provvisti, si tende a intorbidire le acque e si è ripescato il termine” barocco” per appiopparlo tout court al linguaggio semplicemente corretto e appropriato. E l’appiattimento in basso continua la sua opera erosiva.
Tuttavia, i pensieri vogliono parole su misura: non negategliene.
…… Pier Paolo Pasolini da: “poesia in forma di rosa” – Cap. V – Israele
Giro in un kibutz, dove il sole // ed il silenzio sono quelli della domenica. // Chi, nel suo mistero, ha scelto raccoglimento // quasi voltando le spalle al mondo, immusonito, // con pochi conoscenti, chi sulla spiaggia, // a bere la birra, a un bar riempito // dal tonfo della marea del lago. // Ma il sole, il silenzio sono padroni // come in qualsiasi suolo d’Europa, // e le angoscie e le felicita’ di ognuno // a auel sole, a quel grande silenzio, // hanno una quasi monacale assolutezza. // Ah, quale agio, quale diritto di riposo, // quale immemore pace di gente anonima, in chi // ha in cuore l’odio dell’invasore – curioso // invasore, bambino, inoffensivo, puro: // che si trova davanti alla sua colpa // come a una cosa aliena, non prevista // nell,affanno dell’obbedire a Dio. // E i nemici, rei d’irragionevole // pieta’ per la propria terra – che l’inconscio // sospinge dai domini dell’amore a quelli // dell’odio – resuscitando cosi’ // l’assurda cronaca a destino – // sono lassu’ a odiare, loro, di solo odio, // angeli sui loro monti inattingibili.
Il silenzio dell’ estate brucia per colpa del sole tanto alto che sembra ancora piu’ lontano, agli occhi di chi lo guarda da questa sponda, e li arriccia, feriti da troppa luce.
Ho gradito moltissimo la tua attenzione Aldo, e la tua esauriente e gentilissima spiegazione che mi hai dato del sorprendente ” farlocco ” di cui non immaginavo la sua nobile provenienza ; e si allarga sempre piu’ la rosa, mi dici, del suo significato, ed io con una rosa sfilata dalla raccolta “Poesia in forma di Rosa” e che P.P.Pasolini ha dedicato ad uno dei luoghi tipici di questo paese, ti ringrazio con una sensazione di sole e di silenzio:
a seguito……..
Molto interessante l’ argomento e ancora di più le riflessioni, da condividere. Devo esprimere, peraltro, vero apprezzamento per gli interventi ed in modo particolare per quelli di Helena, caratterizzate dal lessico fluente e dalla ampiezza culturale. In proposito: farlocco. Un termine gergale che P.P.Pasolini mutuò dalle borgate romane quando ambientò e scrisse nel 1955 “Ragazzi di vita”; vuol dire, fasullo, taroccato, non vero, non genuino,. Ma nell’ uso corrente si allarga sempre di più la rosa dei suoi significati. Ciao a tutti
E’ proprio la vita che e’ una cosa complicata, e dove stai stai,, ti coje sempre la paura, per una cosa o per l’ altra, la piu sciocca o la piu’ grave, ma sempre paura e’. Allora ti rannicchi l’ anima in un cantuccio aspettando che ti passi, ma quella e’ caparbia e non concede tregua, e’ amica della guerra, della pace se ne frega, se fossi sicura che sia una brutta parola, la chiamerei farlocca, cosa significhi non lo so, ma mi suona proprio bene. E intanto la lingua cambia e ti inventi pure le parole, i tempi lo consentono; prendere il dizionario con questo caldo che ho d’ attorno, non e’ impresa facile. Riprendendo il filo del discorso, mi e’ presa, in questi ultimi giorni, la paura dello spazio che viene a mancare per tradurre in scrittura i pensieri che avevo in mente, senza fare brutta figura.. La lingua parlata, piu’ immediata e familiare, e’ quella che piu’ si adegua alle cose che le stanno intorno, e quindi soggetta al deterioramento, quasi non puo’ permettersi di essere seconda a nessuno, cosi’ fan tutti, in una societa’ in cui bisogna semplificare ogni cosa, a cominciare dai meravigliosi vestiti dei secoli passati, indossati dagli uomini e dalle donne, ridotti a quasi stracci, a jeanserie, strappi e rammendi, ma fatti ad arteanchetroppo da furbi individui che mirano a fare un farlocchio di soldi. E poi, e poi la lingua parlata ci segue ovunque, si fa complice, ci prende a braccetto, per darci una mano a superare gli ostacoli sempre presenti nella corsa quotidiana. Semplificare bisogna. Tutto quello che abbiamo intorno e’ semplificato, gli occhi lo vedono. l’ anima lo respira, assuefatta al deterioramento. Or dov’e’ il suon di quei popoli antichi… grida l’Architettura! le Notre Dame, le Trinita’ dei Monti, l’ Ateneo e il Petruzzelli!, tutto, ma proprio tutto semplificato tutto
Proprio vero, Professore. Drammaticamente vero. La nostra lingua, malgrado il suo ricco patrimonio, pare destinata ad essere soffocata, ad atrofizzarsi per mancato e prolungato uso da parte di una collettività che sempre meno la apprezza e sempre più la demerita. Tra non molto sarà soltanto un malconcio reperto archeologico; già oggi, in gran parte, le sue parole sono considerate pezzi da museo da una massa che ha subito i danni da una scolarizzazione truffaldina, buonista, appiattita sul basso e sulla demagogia ideologica. Maestri incapaci, o vili, o compiacenti verso principi che portano al deterioramento culturale. Con questo ritmo, a meno di una svolta coraggiosa, alla francese, quanto prima parleremo il bantu, la lingua più rozza del mondo, a quanto pare. Ciao.