Note a margine n. 11

In occasione della presentazione in libreria della mia ultima raccolta di poesie (ALBATE, poesie per qualunque amore) di qualche giorno fa, su precise domande degli ospiti intervenuti, ho riletto il testo di alcune mie opinioni pubblicate nel dicembre del 2004. Eccole. Che ne pensate?

POESIA: PERCHE’ ( E COME) LEGGERLA? Un’opinione di Michele Lamacchia (dicembre 04)

Altrove ci è accaduto di intrattenerci sul come si scrive un poesia. Rilasciammo e raccogliemmo un florilegio di risposte. Qualcuno di noi si tenne ben strette le proprie convinzioni e le riportò a casa incolumi, qualcuno le espose all’influenza degli attacchi del virus confronto (e non ne sapemmo più nulla), i più critici rincasarono rimuginando incertezze, quelle fisiologiche, data la intuibile velleità del tema. In proposito, ne scrissi brevemente e tentai di riassumere, riproponendo la domanda in altri termini: perché si scrive una poesia?
Ed ora: perché leggere una poesia? E come leggerla? Laddove per “come” intendo il modo dell’ approccio alla lettura della poesia, la maniera di accostarvisi, giacché uno status mentale indifferente, indisposto, alieno o sintonizzato su differenti frequenze e/o verso forme espressive d’altro segno (quando non addirittura opposto), produrrebbe dissonanze in quel concerto a quattro mani nel quale interagiscono strettamente l’ispirazione dell’ autore e quella dell’interlocutore, l’altro da sé, destinatario della comunicazione, non soggetto passivo, ma che concorre col suo attivo percepire alla produzione del fenomeno arte.
Per quanto mi riguarda, io leggo una poesia, intendo, quella scritta “per dirlo” e non “per dirselo”, quella non scritta per sfogo personale, meglio destinato alle pagine di un diario intimo o al lettino dello psicanalista (ma quello è pagato per ascoltare), o al massimo, alle confidenze dell’amico del cuore e di cuore, sì paziente che come lui non ci capisce nessuno.
Leggo una poesia, per l’ incontenibile curiosità di spiare all’uscio di case inesplorate, di arredi, manufatti e strumenti che mi sono ancora sconosciuti, di affacciarmi su vedute e prospettive singolari.
Leggo una poesia, per cercarvi e trovarvi, se possibile, corpi, essenze, realtà di forma e sostanza, o loro aspetti originali o particolari, porti in modo che io possa dare nuova materia in pasto a tutti i miei sensi, per trarne emozioni, assaporarne il gusto che viene dalla misura e dagli eccessi, dalla coordinazione e dalla sconnessione d’ingredienti, scoprire ciò di cui l’ autore mi fa partecipe, anche inconsapevolmente, se gli riesce di dire più di quanto scrive, concettualizzando, per non rischiare di dire meno di quanto scrive galleggiando in stagni e ristagni emotivi.
Si pensi all’amore, al dolore: da sempre si continua a scriverne; terre tradizionalmente occupate dai rimpianti e dai rimorsi, cosparse di trappole con le pastoie di banalità ed insulsaggini, ma che possono stimolare ancora e all’infinito la linfa del vero poeta: a creare, ad inventare, a scoprire, a interpretare, a sorprendere; e poi, a trovare il modo di affascinarsi e a sua volta sedurre.
Ecco, forse è la forza di seduzione la grande sconosciuta, ignorata nella crescente pletora d’imbrattacarte intimisti che, immersi nell’idolatria del feticcio “sono me stesso”, si accontentano di crogiolarsi nell’autenticità (nessuno glielo nega) del proprio sentimento e di baciarsi da sé le mani, di egotisti che sgomitano per raccontarsi, che versano sul foglio dosi generose di vacuità e ci subissano di cronache solipsistiche tratte dal proprio vivere, promosso sul campo al rango di “arte”, tout court, per editto dell’ego e con tanto di attese di ritorni, anche quando il sedicente artista da sé soltanto ha futilmente autocompletato il ciclo autore-stimolo-interlocutore. E la poesia? Ancora una volta mostra di essere un oscuro oggetto del desiderio, dell’autore e del lettore.
Non so gli altri; ma io leggo una poesia per sperimentarmi, nutrirmi e crescere godendo del fascino della seduzione che riuscirei a trarne, a misura della mia sensibilità, cui si giunge, è ovvio, per energia naturale ma col necessario sostegno di un’utile conoscenza del mezzo espressivo, il lessico prima di tutto.
Già, perché pochi lettori perdonano ad una poesia il fastidio che loro comporta l’uso di parole con cui non hanno dimestichezza: sono coloro che il dizionario non amano consultarlo: e, aspettando che, magari, se lo ripassino per lemmi, bisogna dirglielo con parole loro, pena il calo di share e di gradimento. Eppure, spesso sono proprio quelli che propugnano la libertà espressiva; solo che non includono tutto: a morte neologismi non omologati, esotismi e tecnicismi. E’ la pandemia dell’in parole povere?
Chi preferisce muoversi per sentieri meno impegnativi, si metta comodo e si sintonizzi, invece, sulla prosa che, però, è cosa altrettanto seria, come lo è la poesia che scioccamente è considerata da molti una sommaria scorciatoia verso la scrittura, magari per dire di cose abiotiche o per non dire nulla giocherellando con i suoni. Ma con la prima è impossibile bluffare; e allora si tenta sfacciatamente la sorte con la seconda. Un po’ come avviene per chi non sa disegnare o dipingere, e si rifugia a sguazzare gratuitamente nelle astratte vacuità di colori sparpagliati sulla tela, spacciandoli per astrattismo, laddove quello vero non è traffico di moneta falsa, si intende, ma è quello che supera, sintetizzando o scomponendo, la riproduzione servile della immagine della realtà.
Per il resto, io non leggo versi esiliati nelle ristrettezze di una egolalia petulante, quelli decotti di reiterato patetismo rarefatto o verboso, quelli che cazzeggiano nel sensismo mentre si offrono da bere al bar delle proprie fantasie e ti abbuffano di tutto il prevedibile possibile, quelli improntati al piattume stilistico da tema scolastico a piacere di grammatica e voto di maestra, quelli che non rischiano nulla, quelli dove interferisce l’autore mediante il proprio presenzialismo autobiografico, quelli dal lessico formato sms o smistati per gratuite geometrie grafiche, quelli che brandiscono il lessico come una pericolosa arma impropria, quelli da cahier de doléance o da instant book…; con un lungo, necessario etcccc… Casi per i quali è consigliato il manuale “Poesia: corsi per smettere”. A smettere di leggerne, provvediamo noi, per nostro conto.
Il verso è un ambiente insidioso: spesso, la poesia ci incespica, si risolleva e se ne va altrove: cerchiamola là, con pazienza e curiosità, anche se muniti di dizionario. Perché, tentare di capire è il meno che ci tocca, prima di dirne qualcosa a braccio. Ne vale la pena.

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4 risposte a Note a margine n. 11

  1. ledy ha detto:

    “Ralph Waldo Emerson” ha detto:” Solo la poesia ispira poesia ”
    Io dico che la poesia è dentro di noi,è l’arte che libera l’anima.Non c’è altra cosa che
    riesca a trasmettere emozioni e stati d’animo in maniera così evocativa.
    Tu Michele dici: ” Spesso la poesia ci incespica e se ne va altrove;cerchiamola là,
    con pazienza e curiosità,anche se muniti di dizionario,perchè tentare di capire è il meno
    che ci tocca- ne vale la pena.
    Verissimo e intanto mi permetto di far conoscere una tua,la trovo bellissima.

    ROSA ROSSA
    L’ultima rosa rossa
    che ti lasciai
    muore nascosta dal tuo cuscino.
    Manca la luce,
    manca la fragranza.
    Soltanto polvere spande d’intorno.
    Ed io la raccolgo e la spargo sul mio viso.
    E la respiro.
    Come fosse una tua ultima disperata carezza

  2. lela ha detto:

    Le parole

    Le parole giocano a nascondino
    Diventano sassi in mezzo ai sassi
    Non si riconoscono a prima vista
    Se le ritrovi ci resterai impiccato.
    E’ solo un attimo, una vertigine
    Che passa e fa tremare.
    La realtà chiamerà a gran voce
    Ti farà scendere dal cappio
    Per consegnarti incolume
    All’unica strada dalla fine lenta
    e senza più emozione.

  3. lela ha detto:

    Dicono sapesse usarle … Buonanotte …

    Non chiederci la parola

    non chiederci la parola che squadri da ogni lato
    l’animo nostro informe e a lettere di fuoco
    lo dichiari e risplenda come un croco

    perduto in mezzo a un polveroso prato.
    ah l’uomo che se ne va sicuro
    agli altri e a se stesso amico
    e l’ombra sua non cura che la canicola
    stampa sopra uno scalcinato muro!
    non domandarci la formula

    che mondi possa aprirti
    sì. qualche storta sillaba e secca come un ramo.
    codesto solo oggi possiamo dirti
    ciò che non siamo ciò. che non vogliamo.

    ( Eugenio Montale)

    • Michele ha detto:

      VOCE

      Dateci voce poeti
      e lasciatevi trovare.
      Le parole vi stanno cercando,
      non importa che siano nuove
      o cariche di polvere o di anni.

      Quando non bastano i pensieri,
      raccogliete i respiri,
      fatene voce d’assolo
      e voci di coro.

      A che vi serve un’anima intera?
      e l’afflato vitale che custodite gelosi?
      Fatene pezzi e briciole,
      fatene cento volte cibo
      e, crudo, spargetelo lontano,
      a decomporsi con la terra
      e poi a rinascere radice, con questa.
      E poi, fuggite altrove,
      per non raccoglierne dopo
      e per non spezzare
      i fiori che verranno.

      Altri dovranno farlo.

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