LA LIBERTA’? LASCIATEMELO DIRE…
A livello di eloquio e di sproloquio, si parla e si discetta di libertà, quella che si pretende a gogò, no stop, no limits, a dimensione d’ infinito leopardiano. La pacchia per i polemisti sfaccendati o per gli ansiosi arrivisti.
Lo si fa, in genere, col piglio ed il lessico del demiurgo, del demagogo, dell’ arruffapopoli lanciato in orbita per le primarie: qualunque becerata se ne dica, purché a sostegno, si va sul sicuro, riesce sempre bene, si beccano applausi a scena aperta,…e i voti, persino, sapete, quelli che portano soldi facili e molti, pubblici e privati. Non ci vuole molto a convincere una piazza, una piazzetta, una platea di antropomorfi pronti, comunque, a cliccare sul tasto del diffuso e festoso consenso incondizionato, in diretta progressione geometrica con l’ovvietà del concetto o, peggio, con l’ incitazione all’affascinante ribellione. Contro chi? Beh, questo è soltanto un modesto e superfluo dettaglio: si trova sempre uno contro cui ribellarsi e i fessi sanguinari da intruppare nelle sacre crociate di liberazione. Con tanto di promesse, solenni quanto razionalmente improponibili. Il senso critico degli ascoltatori, in questi contesti, è sempre occupato altrove.
Ciò che interessa alla massa similpensante è la questione principio, specchio per le allodole. E la sostanza? Beh, questa è tutta altra cosa, roba da esseri pensanti. Qui dovremmo andare sul difficile. E dovremmo prima trovare un interlocutore preideologico (sarebbe il massimo), ma almeno onesto e di buona volontà.
In genere, chi (oggi, più che mai) mugugna o sbraita in nome della libertà – fateci caso – è un infelice minus habens che, in fine dei conti, vuole obbedire. Obbedire, sì, anche se soltanto a chi gli pare e alle regole che costui gli impone camuffate da libertà e gli spaccia come autodeterminazione.
Trattasi di una massa di poveracci mentali che hanno così poco confidenza col concreto concetto di libertà da non meritarsela neanche in assaggino o in fotografia. Provate a contraddirli.
Eppure, in molto pochi si accorgono, e in pochissimi si rendono conto o protestano, di quanto tutti siamo praticamente sottomessi. A chi? Domanda sbagliata. Quella esatta è, invece: a che cosa?
In quanti hanno consapevolezza, o avendola, hanno forza e carattere per ribellarsi ad una situazione, ormai consolidata, che vede dipendere la nostra vita, il nostro senso di appagamento, il nostro umore, dalla accessibilità economica delle cose che un mercato abilmente tentatore ci offre come indispensabili, allettandoci e convincendoci che ne abbiamo assoluto bisogno: per stare bene, per essere contenti, per sentirci felici e liberi?
Tra i noti mestatori e meno noti saltimbanchi della chiacchiera libertaria che imperversano dietro o avanti al tubo catodico, pronti a protestare duramente anche per nuovo divieto di balneazione o di sosta, avete mai trovato qualcuno che abbia saputo opporre apertamente un risoluto ‘no’ alle cicliche e reiterate imposizioni della moda (non solo del vestire, ma anche del parlare, del pensare, etc.), della tecnologia, degli integratori alimentari, etc? La prima, furbescamente spacciata per eleganza che, con una semplice firma o la citazione di un maître à penser, ci classifichi bene nella graduatoria sociale; quanto volte abbiamo detto: questo capo è ancora in ottimo stato ma proprio non posso indossarlo ancora? la seconda, che si impone alle nostre menti come deus ex machina, soluzione dei limiti delle risorse umane diversamente non coltivate o naturalmente indotte dalla età; la terza, come miracolosa panacea che ci trasforma sicuramente in evergreen-superman dotati di superpoteri necessari a prevalere e a prevaricare su altri, nella corsa sociale dove siamo disposti a sgomitare e a cercarci scorciatoie per conculcare la libertà altrui in nome della nostra. Per non dire, poi, delle reti lanciate dalla moda del pensiero – con successo assicurato – come le note sparse da una combriccola di pifferai che hanno hamelinizzato l’intero paese, l’hanno trasformato in personali vivai di muridi e, per proprie mire, se ne contendono il prodotto per la sua facile governabilità.
Di fronte a queste realtà surrettiziamente liberticide, la stragrande maggioranza di un popolo in piena fase di crisi regressiva culturale, etica e mentale, indifesa, strafatta di dosi di velleità indifendibili, di cazzose indignazioni, di esiziali indifferenze, di populistici crucifige!, di osanna gregali, e di neo discorsi della montagna più affabulanti dell’originale, immola ragione e buon senso, china la testa – se ancora non l’ha persa del tutto – annuisce compiaciuta e obbedisce pienamente soddisfatta. Felice di farlo se ha i mezzi per obbedire, pronta e predisposta a procurarseli a qualunque costo. Il sistema lo consente o dispone soltanto di deterrenti molto meno efficaci degli stimoli. Leggete la cronaca politica, nera, rosa, azzurra, viola… Devo essere più specifico?
Questa è la libertà cui anela un popolo più “sottano” e che sovrano, pervaso da un endemico provincialismo acuto, preoccupato di apparire obsoleto, e che, perseguitato dal patologico senso di colpa di un trapassato remoto di cui ancora si vergogna pur non essendone responsabile, cura, rispetta e protegge ogni cultura tranne la propria, e ne sopporta spese e conseguenze, assillato dall’ ansia maniacale di trovare continuo riscatto che certamente non troverà per questa via insensata e senza ritorno. Forse, perché il riscatto è già stato pagato, mentre molti hanno interesse, invece, a far credere il contrario per continuare a riscuotere in eterno il ricco pizzo dell’estorsione psicologica e profittare delle fruttuose rendite ricavate dal sangue di un popolo lagnoso, autodenigratorio ma non mai autocritico.
Questa è la libertà ambita da un popolo allo sbando – suicida, disfattista e in disfacimento – e che si merita pienamente non avendo il coraggio di opporsi agli stereotipi imposti da una massa di mascalzoni, abusivamente ertasi a faro di orientamento. Soprattutto, è una libertà licenziosa: dai veri doveri, dal vero impegno, dalle concrete e congrue responsabilità, dalla vera solidarietà individuale e sociale; è una libertà, bottegaia nel contenuto e populista nella forma, gretta, di categoria e corporativa, di una nazione sbrindellata, manovrata, sottomessa a padroni che non riesce ad identificare, sviata, spiata, origliata. E impaurita, sia pur meno di quanto dovrebbe esserlo se riuscisse ad aprire gli occhi invece di farseli chiudere così come si lascia ottundere la mente.
Insomma: una vera libertà a cazzo di cane. Ebbene, lasciatemelo dire: grazie, no. Io cerco altro. Me lo sono guadagnato.
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Tenaci sono le catene,
ma mi duole il cuore
quando cerco d’infrangerle.
Libertà è il mio solo desiderio
ma di sperarla mi vergogno.
Sono certo che ricchezze inestimabili
sono in te, che il mio migliore amico
sei tu, ma non trovo il coraggio di gettare
gli orpelli di cui è piena la mia stanza.
Sono come avvolto in un sudario
di polvere e morte — lo detesto
eppure lo abbraccio con amore.
I miei debiti sono numerosi,
gravi sono le mie colpe,
la mia onta segreta è pesante —
ma quando vengo a chiedere il mio bene
tremo di paura al pensiero
che la mia preghiera sia esaudita.
T a g o r e
Non resta molto da dire dopo aver letto la nota n. 10 … ma ci provo …
Tutti gli uomini cercano la propria felicità nella vita. La libertà, in questo senso,
è meno importante della sensazione di essere liberi. Di fatto l’idea stessa di unire le proprie forze fondando una comunità porta come conseguenza una serie di limitazioni alla propria libertà. Non è più vero che si possa fare tutto, invece dobbiamo limitarci a fare quello che non danneggia gli altri. Più la nostra posizione è importante, vicina al vertice della società, maggiori dovrebbero essere le nostre limitazioni, perchè maggiore è il numero delle nostre azioni che danneggerebbero gli altri.
Paradossalmente il barbone è più libero, perchè quasi nulla di quello che è in grado di fare gli viene precluso. Quello che rende insoddisfatte molte persone è il confrontarsi con gli altri, cosa che il barbone non ha ragione di fare, per la scelta di vita che ha intrapreso e, se sa gestirsi bene, con quel poco che ha, può vivere più felice e sereno di un potente, e sentirsi anche più libero.
Si sente libero perché ha rinunciato a molte responsabilità, ma anche alla libertà di lavorare, di avere una famiglia, di studiare, di guidare un’auto, di abitare una bella casa, di dare una festa, di avere il cellulare, il pc, la tavola imbandita …
Si, però non sempre il barbone porta avanti quel genere di vita per scelta, ma per costrizione, essendogli stata negata la libertà di poter vivere, nella peggiore delle ipotesi, come la stragrande maggioranza dei suoi simili.
Non era mia intenzione parlare di barboni piuttosto che di potenti … il mio discorso voleva essere un po’ più ampio e metteva in contrapposizione, molto semplicisticamente, situazioni opposte. L’argomento della nota, del resto puntuale e completa, era la libertà , dove finisce la nostra, se finisce, per far spazio a quella altrui, come se ne fa uso od abuso e strumentalizzazione … basta leggere.
Comunque:
i barboni in Italia sono per lo più italiani, hanno all’incirca 40 anni, il 30 % è diplomato e il 7 % laureato, il 13 % ha un lavoro fisso o comunque è attivo nel mercato del lavoro (74%), il 70 % legge un quotidiano, eppure sono clochard.
Il fenomeno in Italia riguarda 70-100 mila persone, quasi lo 0,2 % della popolazione, una percentuale che ci affianca agli Stati Uniti dove gli homeless sono una realtà quasi “ordinaria.
Le cause che portano a questa condizione sono le più disparate, mi permetto di mettere un link e mi scuso per la poca coerenza con la nota di Michele, ma tant’è …
http://it.wikipedia.org/wiki/Clochard